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216 il morgante maggiore.

34 E Luca, e Marco, e Giovanni, e poi Cristo.
     O traditor malvagio, o Scariotto,
     Tu n’hai pur fatte più che Giuda a Cristo;
     Ma non sanza cagion si dice un motto:
     Che ’l sabato non paga sempre Cristo,
     E non vi fia poi in fine un quattrin rotto;
     Non è del pagamento il tempo giunto:
     Colui che ’l tempo fe’, sa il tempo appunto.

35 Carlo si stava in Parigi contento;
     Era già vecchio, e pur canuto e bianco;
     Pensa che in Gano il mal seme sia spento;
     E pur se non è sazio, almen sia stanco;
     Ma egli aveva a ogni piaga unguento,
     E ’l coltel tossicato sempre al fianco,
     E lascerà la pelle omai col vezzo:
     E non è peggior mal che quel da sezzo.

36 Intanto le novelle son venute,
     Come Marsilio raguna gran gente,
     E molte nave in mar già son vedute,
     Che s’apparecchion continovamente;
     Ma non son le malizie cognosciute
     Di Gano, ancora ignun non sa niente:
     Vero è che la partita così súbita
     Di Bianciardin fa ch’ogni savio dubita.

37 Carlo fe’ tutto il consiglio chiamare,
     E Ganellone il primo fu in bigoncia,
     E seppe, come e’ suol, ciaramellare;
     E le sue maliziette in modo acconcia,
     Che Carlo ancor se ne lascia menare:
     Ma Turpin savio la ballata sconcia,3
     E disse: Gan, tu puoi dire a tuo senno,
     Chè non s’accordan le parole e ’l cenno.

38 Riprese adunque Namo le parole;
     Andò per molte vie girando quello,
     E riuscì poi infine dove e’ vuole,
     E rovesciògli in capo un gran cappello.
     Il duca Astolfo fece come e’ suole,
     Non aspettoe che si tocchi il zimbello:
     E disse: Ganellon, tu ne fai troppe,
     E non sai ben che le bugie son zoppe,