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218 il morgante maggiore.

44 E nel giardino un dì sendo rimasi,
     Dove Avin m’ha veduto civettare,
     Mi conferì suoi fatti e certi casi,
     Come suol l’uno amico all’altro fare,
     Per consigliarsi; e non vi stemmo quasi:
     Colui ch’è giusto, non suol dubitare;
     Al peccator suol ben parer l’un due,
     E ch’ogni mosca sia per l’aria un grue.

45 Io mi son, Carlo, a sofferire avvezzo,
     Ed ho fatto buon gusto e buono orecchio;
     E quando il falso attorno è ito un pezzo,
     Convien che il vero appaia in ogni specchio:
     Così fussi quel giorno stato il sezzo
     Ch’i’ venni in corte ov’io mi trovo vecchio,
     Lasciata la mia patria e qualche regno,
     Per riportarne ingratitudo e sdegno.

46 Io me n’andrò così vecchio in Maganza,
     E qualche volta, poi ch’io sarò morto,
     Conosciuta sarà questa arroganza,
     Che mille volte m’ha incolpato a torto:
     Tu hai dato a costor troppa baldanza,
     O Carlo, o Carlo, e la pena io ne porto!
     Ma in fin tra’ can si resterà la rabbia,
     Ch’io farò ben; chi pensa mal, mal abbia.

47 Disse Ulivieri: Ah traditor ribaldo!
     Io scoppio, Carlo, io non posso tacere;
     E’ si par ben che non c’è più Rinaldo,
     Ch’e’ ti farebbe ancor l’olio tenere.
     E non potè per ira star più saldo,
     E levossi turbato da sedere;
     E dette al conte Gano una guanciata,
     Che nel viso e nel cor riman segnata.

48 Ah, Ulivier, tu il piangerai ancora
     In Roncisvalle, e sarai malcontento;
     Questo è quel dì che Maddalena adora,
     E sparge a’ piedi il prezioso unguento:
     Questa ceffata è fuoco che lavora,
     Che fia col sangue de’ Cristiani spento;
     Vedrai che in Ganellon può questo sdegno
     Tanto, che ’l cielo ancor ne farà segno.