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canto ventesimoquinto. 303

284 Disse Astaròt: Il buon volere accetto;
     Per noi fien sempre perdute le chiavi,
     Maestà lesa, infinito è il difetto:
     O felici Cristian, voi par che lavi
     Una lacrima sol col pugno al petto,
     E dir: Signor, tibi soli peccavi:
     Noi peccammo una volta, e in sempiterno
     Religati siam tutti nello inferno.

285 Chè pur se dopo un milione e mille
     Di secol noi sperassin rivedere
     Di quell'Amor le minime faville,
     Ancor sarebbe ogni peso leggiere:
     Ma che bisogna far queste postille?
     Se non si può, non si debbe volere;
     Ond’io ti prego, che tu sia contento
     Che noi mutiamo altro ragionamento.

286 Or oltre, padre santo; non bisogna
     Disse Rinaldo, arrossir però in volto.
     Rispose Squarciaferro in la vergogna:
     Non t’accostar, ma s’io t’avessi còlto?
     Disse Astarotte: O Malagigi in gogna
     Ti metterà, prima che passi molto,
     O tutti in Roncisvalle insieme andremo,
     Poi nello inferno ci ritorneremo.

287 E so che vi sarà faccenda assai
     Per la virtù di questi paladini,
     E come ghezzo staffier ne verrai;
     E fa che allato a Rinaldo cammini.
     Rispose Squarciaferro: Or lo vedrai.
     E poi in un tratto apparirono i crini
     Neri, arricciati, e gli occhi come fuoco,
     E transmutossi in ghezzo a poco a poco.

288 E poi rivolse a Rinaldo lo sguardo,
     E disse: Andianne, ch’io sono indiano,
     E non son più quel romito bugiardo:
     La pace è fatta. E toccògli la mano.
     Allor Rinaldo moveva Baiardo,
     E monti e balzi ogni cosa era piano;
     Sì che di poco si mostrava il giorno,
     Che presso a Siragozza capitorno.