Pagina:Pulci - Morgante maggiore II.pdf/436

Da Wikisource.

canto ventesimottavo. 433

142 Ben so che spesso, come già Morgante,
     Lasciato ho forse troppo andar la mazza;
     Ma dove sia poi giudice bastante,
     Materia c’è da camera e da piazza:
     Ed avvien, che chi usa con gigante,
     Convien che se n’appicchi qualche sprazza;
     Sì ch’io ho fatto con altro battaglio
     A mosca cieca, o talvolta a sonaglio.

143 Non sien dati miei versi a Varro o Tucca,14
     E’ basta il Bellincion ch’affermi e lodi,
     Che porge come amico, e non pilucca:
     I’ guarderò in sul ghiaccio ir con buon chiodi:
     Io porterò in su gli omeri la zucca,
     Nell’acqua cinto con sicuri nodi;
     E farò tanto quanto i savi fanno,
     Di perdonare a color che non sanno.

144 Ed oltre a questo e’ ne verrà il mio Antonio,
     Per cui la nostra cetra è gloriosa
     Del dolce verso materno ausonio,
     Benchè si stia là in quella valle ombrosa,
     Che fia del vero lume testimonio:
     Ognun so che riprende qualche cosa;
     Ma io non so s’e’ si son corvi o cigni
     I detrattori, o spiriti maligni.

145 Pertanto, io non aspetto il baldacchino,
     Non aspetto co’ pifferi l’ombrello,
     Non traggo fuori i nomi col verzino,
     Com’io veggo talvolta ogni libello;
     Quand’io sarò con quel mio Serafino,
     Io gli trarrò fuor forse col cervello:
     Perchè questo Agnol vi porrà la mano,15
     Nato per gloria di Montepulciano.

146 Questo è quel divo e quel famoso Alceo,
     A cui sol si consente il plettro d’oro,
     Che non invidia Anfione o Museo,
     Ma stassi all’ombra d’un famoso alloro;16
     E i monti sforza come il tracio Orfeo,
     E sempre intorno ha di Parnaso il coro,
     E l’acque ferma e i sassi muove e glebe,
     Ed a sua posta può richiuder Tebe.