Pagina:Quel che vidi e quel che intesi.djvu/132

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Faceva parte della nostra prima linea di difesa una collina con sopra una casetta, la quale si estendeva da Roma verso i Francesi. Noi avevamo diligentemente fortificato questa posizione avanzata con fossati e con alti e spessi mucchi di sacchi di sabbia.

Una notte io montavo come sentinella morta al di fuori della linea dei sacchi. Ricordo che c’era gran buio. Bisognava, quindi, star con gli occhi bene aperti e le orecchia intente. Ma bisognava, pure, tenere le narici ben turate a cagione di un cavallo morto, che da qualche giorno andava putrefacendosi poco lungi dalla posizione.

Ci fu, quella notte, un tale che mi pregò che gli cedessi il mio turno di fazione avendo egli gran necessità di restituirsi ad una data ora a casa. Accettai di buon grado; me ne andai a far la mia solita ispezione negli ospedali. Tornato che fui per riprendere il mio turno di fazione, trovai la collina in possesso del nemico e quel tale, che aveva voluto montar la fazione in mia vece, strangolato e gettato a far compagnia al cavallo in putrefazione.


Si voleva, prevedendo imminente la entrata dei Francesi nella città, continuare a combattere per le vie. Si innalzarono parecchie barricate. E a questi preparativi per la resistenza nella città sopraintendeva Enrico Cernuschi, avendo al lato lo scultore livornese Temistocle Guerrazzi ed il giovane ingegnere romano Leonardi.

Cernuschi volle rinnovare, per la difesa nelle vie, specie contro la cavalleria, i «triboli» di Cesare; i quali erano arnesi a molte acuminate punte, che lanciati, da qualunque parte posassero in terra, molte punte rimanevano sempre volte in aria. Datine i modelli, pubblicò che la Repubblica ne avrebbe comprati quanti gliene fossero stati presentati. I fabbri romani in breve ne fabbricarono in quantità esuberante. Cernuschi, allora, fece affigger questo manifesto che assai, in quei gravi giorni, si prestò ai motteggi: