Pagina:Quel che vidi e quel che intesi.djvu/151

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labbra, quando io comparvi, un sorrisetto sarcastico di chi sentendosi al sicuro se la gode dei guai altrui. Io ripensai alla nostra inimicizia di collegio, alla cattiveria del mio antico compagno. Ciò mi fu utile. E mi ricordai, pure, di aver più volte inteso ripetere dalla saggia mia madre:

— «Figli miei, farla da imbecilli specie quando imbecilli non si è, e si è sinceri, è assai difficile. Ma farsi credere imbecille è, nella vita, spesso assai assai utile».

Così mi sedetti dinanzi al giudice ben determinato a farla da imbecille. Mi misi il cappello tra le gambe e cominciai a girarlo con ambo le mani, quasi che ciò mi dovesse aiutare a trovar le parole; e, poi, sommessamente dissi al giudice:

— Mi dica lei signor giudice: cosa ho io da rispondere?

Ed il giudice Pasqualini a me.

— È il Grandoni che vogliamo, non capisce?

Io risposi:

— Per ben due volte il Grandoni è stato in procinto di essere ucciso da quegli stessi che hanno pugnalato il Rossi. E se io non ero a trascinarlo fuori dalla Cancelleria, dicendolo impazzito, sarebbe caduto morto accanto al Rossi.

Al termine della mia molto lunga deposizione questa non mi venne riletta. Ed a me che, con la timidezza del collegiale che vuol rivedere ancora il proprio compito, domandava di conoscere quello che si era messo in scritto, venne seccamente risposto:

— Non è necessario di rileggere nulla. Non le abbiamo fatto prestare giuramento. Così non le facciamo dar lettura di verbali, nè firmarli; perchè in questo processo è imputato anche lei. Anzi lei si tenga pronto ad ogni altra chiamata.

Mi parve di essere già bello e spacciato. E vidi bene che la mia innocenza e l’orrore che io avevo sentito per quell’assassinio non mi avrebbero affatto salvato, quando ci fosser stati di mezzo odii personali, vendette, invidie, ambizioni di giudici servili e senza coscienza.

Credo dover la salvezza, in quella tremenda congiuntura della mia vita, per molto anche alla mia cara arte. L’amore