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Nella Locanda Martorelli trovai un certo Mayer pittore, vecchio ebreo zoppo. Il quale si può dire l’iniziatore della pittura di genere. Di quell’arte tedesca fatta un po’ per ridere. Che, per esempio, avea per soggetti: l’abatino che torna al paese e fa trasecolar la mamma leggendo un libro; lo scrivano di Piazza Montanara; la donna con gli occhi bassi, pensierosa con un dito in bocca; il barbiere col contadino con la mela in bocca sotto un arco del teatro di Marcello e simili.

Questo Mayer era, però, uomo di gran spirito, conosciuto da principi di case regnanti, i quali andavano a trovarlo. Una cosa, però, gli doleva: di avere il tanto comune nome di Mayer. Così un giorno che un aerostato stava per essere lanciato e per innalzarsi con l’aereonauta nella navicella, con un salto improvviso vi entrò anche lui. Allora le navigazioni aeree non erano comuni. E così egli contava di distinguersi ed acquistarsi nome diventando «il Mayer che è andato in pallone.» Quando, però, si trovò nelle alte sfere domandò all’aereonauta come si chiamasse. Ed ebbe la delusione di apprendere che si chiamava Mayer anche lui!

Mayer mi diceva che, per ottenere qualcosa nei piccoli paesi, bisognava mettersi bene con preti, frati e monache, mostrandosi ferventi religiosi. Così egli avea sempre ottenuto quanto voleva. Avea sempre le tasche piene di dolci; e si mostrava sempre cavalcando l’asino per non farsi conoscer zoppo dai paesani.

In una cittaduzza del Napoletano si accorse che non potevano digerirlo; lo ritenevano un mago. Egli, allora, arrivato la domenica, benchè zoppicante, traversò la Piazza della Cattedrale, domandò premuroso a questo e quello se la messa era ancora buona. E gli rispondevano:

— È buona, è buona ancora, non siamo ancora al Vangelo, buon uomo.

Questo ripetè ogni domenica. Ciò gli procurò fama di persona molto pia e devota. Tanto che, giunto alle orecchie del