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In una bella mattinata della fine del Giugno 1864 io, travestito da buttero, ciò che non mi accadeva per la prima volta, passavo, a cavallo, e coll’immancabile pungolo in mano, Porta del Popolo.

Rientravo, dopo alcuni anni di assenza, in Roma. Per ferrovia mi seguiva una molto bella fanciulla. Era la mia Ninfa del bosco, con la quale io era a quel tempo, tuttora nei bollori di un recente amore; e dalla quale, a quei giorni, io non avrei potuto per molto vivere lontano.

Nei primi tempi di questo mio ritorno nella mia città natale mi parve bene di starvi celato, onde poter meglio adempiere al mio incarico; che, come ho detto, consisteva sopratutto di accertare le condizioni di spirito, di organizzazione, di azione, al fine di venire in chiaro circa le aspre accuse degli emigrati contro i dirigenti del C. N. R. Mi avevano preceduto le più ampie credenziali di Giuseppe Checchetelli che tutti riconoscevano tuttavia quale capo supremo del movimento nazionale in Roma. Messomi subito all’opera, condussi a termine in breve la mia inchiesta. E venni ad assodar fatti che mi fecero concludere che le accuse di spensieratezza, di scoraggire qualunque azione e qualunque attiva propaganda, di addormentare lo spirito nazionale con vane ciancie, combattendo coloro che erano animati da maggiore ardore, erano fondate.


Veramente il numero degli inscritti al C. N. R. era tuttavia ragguardevole; e tutti, dal più al meno, pagavano la quota mensile. Ma il tempo, e gli avvenimenti cui ho accennato, avevano avuto su quello i peggiori effetti. Si era quasi del tutto spento il primitivo ardore rivoluzionario. Nell’assenza dei più ardenti, fuorusciti quasi tutti, alla testa del Comitato eran capitati uomini temperatissimi per indole o per interesse; i quali, collegati che erano col Governo di Torino, si erano fatti personaggi quasi ufficiali. A Torino, nelle sfere governative, certo non si spasimava per la liberazione di Roma, ovvero si voleva lasciarla al Papa — così molti come Massimo D’Azeglio — o