Pagina:Quel che vidi e quel che intesi.djvu/312

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ancor per molto tempo, i Romani potessero fruttuosamente tentare altro moto nella città. Molti amici e compagni si affrettarono, non pochi anche col mio aiuto, a fuggir Roma e lo Stato Pontificio onde cansare l’arresto da cui io pure ero minacciato. Emigrati che, segretamente, avean fatto ritorno in Roma per liberarla riprendevano la via dell’esilio. Ed io, pure, non indugiai molto in Roma, dove ero esposto alle severità del Governo Pontificio ed alle vendette dei nemici politici del Comitato Nazionale Romano i quali avevano rialzata la cresta, mentre la «Consorteria» gongolava a Firenze. Garibaldi teneva tuttora la campagna con ragguardevoli forze; e queste potevano essere adoperate sia contro il Papa, sia contro l’imbelle Governo Italiano al fine di matener viva la Quistione di Roma. Decisi, quindi, di raggiungere il Generale, raccomandando i miei averi ed i tesori del mio lavoro, che ero costretto lasciar nel mio studio, alla grazia di Dio ed al buon volere degli amici miei. I quali, nel giovarmi, furono per devozione ed abilità impareggiabili.


(Sir William B. Richmond, che si trovava in quei giorni a Roma, scriveva come in appresso dei casi di Nino Costa e delle cose sue ad Olivia Rossetti Agresti. G. G. C.)


«Il Sacro Collegio (sic) e la Polizia del Governo di Roma tenevano d’occhio Costa. Sapendolo riuscito a mettersi al sicuro in Firenze, venne decisa la confisca del suo studio con tutto il contenuto, che comprendeva bellissima roba artistica antica assieme ai suoi dipinti, resultato di anni ed anni del suo lavoro.

«Si voleva, pure, confiscare il danaro che egli aveva investito in banche di Roma, od almeno quello che ne rimaneva, poichè la sua generosità, durante il movimento rivoluzionario, era stata fenomenale.

«Queste intenzioni, comunque, furono bravamente frustrate nel modo seguente:

«Era in Roma un pittore americano, certo Wilde, che di