Pagina:Quel che vidi e quel che intesi.djvu/327

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questo il mio posto, di non lasciare il Generale, non potendo saper quel che sarebbe accaduto.

A Passo Corese venne Crispi, inviato dal «Centro di Emigrazione» con l’incarico di adoprarsi presso Garibaldi per indurlo a desistere da ogni ulteriore tentativo. Egli non fu certo da tutti, tra noi, bene accolto. Troppi di noi sentivamo per i deputati che facean parte del «Centro di Emigrazione», un invincibile rancore; sembrandoci che essi, per quanto provenienti dal nostro campo rivoluzionario, di questo entrando in Parlamento avesser perduto ogni spirito; e, così, non avessero dato alla nostra impresa tutto quanto il concorso che avrebber, volendo, potuto darle.

Formato un minuscolo treno di una locomotiva e due carri vi prendemmo posto, con Garibaldi, noi dello Stato Maggiore e Crispi. Lento il treno procedette verso Firenze. Lungo la linea, occupata militarmente, i soldati italiani apparivano ingiuriosa minaccia all’eroe nazionale, all’Uomo che più di ogni altro aveva operato per ricostituire l’Italia a libera nazione. È ben vero che alle stazioni, dietro le linee dei soldati che circondavano il piccolo treno, v’era sempre folla di cittadini acclamanti. Ciò non valeva a scuotere il Generale. Esso da quando, a Mentana, avea dovuto decidersi ad ordinar la ritirata si era chiuso in un assoluto, tetro silenzio, a tutti noi estremamente penoso, pensando a quanta amarezza dovesse pienare quel grandissimo cuore. Nessuno dei più intimi suoi mai lo aveva veduto così.


Quando giungemmo alla stazione di Figline, un grosso distaccamento di Bersaglieri circondò il nostro piccolo treno. Si accostò al compartimento in cui eravamo col Generale il colonnello Camozzi e gli comunicò ch’egli avea dal Governo ordine di arrestarlo.

A questo, quanti eravamo con Garibaldi mettemmo mano alle armi. Ma Garibaldi, con un gesto e più col suo sguardo magnetico, ci fermò, aggiungendo che non si dovea versare