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ricordi di londra. 11

d’uno sdegno da milionario, gettai sulla tavola una lira sterlina, e facendo un gesto che in quel punto mi parve degno d’un verso di Dante, dissi: — Pagatevi e andiamo! — M’accompagnarono nella camera. Mi buttai subito in letto; ma per molto tempo non riuscii a chiuder occhio, tale era il rumore che mi giungeva all’orecchio. Era un rumore sordo e monotono come se fiottasse il mare ai piedi della casa; e in mezzo a questo brontolìo uno scoppiar di clamori acuti che pareva giungessero da grandissime lontananze, e mi facevano pensare a mille cose strane, come se fossero suoni di parole sfuggite alla immensa città che s’addormentava, lamenti dei suoi sobborghi sterminati, imprecazioni di quella formidabile City affranta dalla fatica, accenti di accusa e di giustificazione, come si odono nel gran muggito del mare in tempesta. A poco a poco i rumori più alti cessarono, non udii più che il brontolìo monotono; poi di tratto in tratto riudii i rumori di prima, — una città come Londra stenta a prendere sonno; — poi cessarono daccapo; finalmente m’addormentai e feci i più stravaganti sogni del mondo.

La mattina, assai prima del levar del sole, uscii, e mi diressi verso il Tamigi. Ero a pochi passi dal ponte-di-Londra, nel cuore della City. Si vedeva pochissima gente, regnava un gran silenzio, il cielo era grigio, faceva freddo, una nebbia leggera velava tutte le cose senza nasconderle. Andai verso il ponte a passi rapidi, sapendo che di là si godeva il più gran colpo d’occhio di Londra.

Arrivato in mezzo al ponte, guardai intorno, provai un istantaneo senso di freddo dal capo alle piante e rimasi immobile.

Subito dopo mi balenò dinanzi l’immagine di Parigi vista dal Ponte Nuovo, e mi parve straordinariamente piccina.

Poi mi appoggiai alle spallette e dissi coll’accento di chi vuol mettere un po’ d’ordine nella sua testa: — Vediamo.

Sotto, il Tamigi larghissimo: da un lato bastimenti a perdita