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sugli uomini, e sulle donne di Roma? Chi non può compiangere un ingengo eletto come il suo, condannato a cercare le sue ispirazioni in quel pantano morale della socielà romana a suoi tempi! Facit indignatio versum, qualemcumque potest!

Si paragonò, e per dir vero con qualche verità, Giovenale a Tacito, il suo grande e nobile contemporaneo; ma lo storico di quell’epoca aveva almeno la coscienza di chiamare il dispotismo davanti al tribunale supremo della posterità, sempre pronto a pronunciare le sue sentenze. Ma chi, o qual cosa può confortare il poeta satirico, od il pittore della impudicizia, nel ribrezzo che deve provare a descrivere la generale corruzione de’ suoi tempi? Eppure, quanto non è superiore Giovenale ai romanzieri ed ai dramaturgi dei tempi nostri, i quali vilmente descrivono il vizio sotto ai più bei colori, e ci porgono assassini vilissimi, quasi tipo dell’ideale? Teniamoci almeno fortunati noi Tedeschi che se non possediamo nella nostra letteratura un Giovenale, non abbiamo neppure un Alessandro Dumas, e siamo tuttora in grado di deporre una corona non contaminata in capo ad uno Schiller: il poeta generoso della libertà, e dell’ideale nell’umanità.

Ambedue quei Romani, Giovenale al pari di Tacito, lamentarono la perduta libertà repubblicana; ambedue disperarono dell’avvenire, il quale non appariva loro diversamente da un abisso, Giovenale però in maggior grado che Tacito. Ed in faccia a dessi, di già sorgeva, conosciuto soltanto quala setta giudaica, il Cristianesimo, ideale tuttora velato, di una umanità ringiovanita. Ed intanto i Germani, di cui Tacito ammirava la schietta naturalezza e la semplicità eroica, apparrecchiavano ad abbattere in Roma il dispotismo e la menzogna.

Il Cristianesimo! Siamo nelle rovine di Acquino, e fra i ruderi di S. Maria Libera appare un santo illustre, il dottore Angelico. Veste l’abito dei frati Domenicani, tiene un fascio di libri sotto il braccio, è di statura alta, asciutto, cammina curvo, ha testa voluminosa, faccia abbronzata e