Pagina:Rusconi - Teatro completo di Shakspeare, 1858, I-II.djvu/739

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ATTO QUINTO




SCENA I.

Il campo di Cesare dinanzi ad Alessandria.

Entrano Cesare, Agrippa, Dolabella, Mecenate, Gallo, Proculeio, ed altri.

Ces. Va a lui, Dolabella, digli di cedere: digli che, spogliato di tutto e nello stato in cui trovasi, ci schernisce indugiando ad arrendersi.

Dol. Così farò, Cesare.

(esce; entra Derceta colla spada di Antonio)

Ces. Che è ciò? E chi sei tu che osi apparirci così?

Der. Mi chiamo Derceta. Servivo Marc’Antonio, il migliore degli uomini, e che meritava gli ottimi dei servigi. Non l’ho abbandonato finchè ha potuto respirare e parlare, e non tollerai la vita che per spenderla per lui contro i suoi nemici. Se ti piace di prendermi a’ tuoi stipendi, quello che fui per Antonio sarò per Cesare; se rigetti la mia offerta, prendi la mia vita, io te l’abbandono.

Ces. Che mi dici tu?

Der. Sì, Cesare; Antonio è morto.

Ces. Il rumore della caduta di un sì grande uomo avrebbe dovuto risuonare per l’universo. Ella doveva annunziarsi con prodigii; la terra avrebbe dovuto cacciare i leoni dai loro antri nelle strade delle città, e spinger gli abitanti delle città negli antri di quelli. La morte di Antonio non è morte di un sol uomo; la sua caduta tira con sè la metà del mondo.

Der. Cesare, ei non è morto per mano disonorante, nè col soccorso di pugnale mercenario. Quel braccio stesso, che facea onorande tutte le sue opere, straziò il cuore che gli prestava l’ardire invincibile. Ecco la sua spada, la trassi io stesso dalla ferita, e la vedi tinta ancora del suo nobile sangue.

Ces. Voi piangete, miei amici? — Gli Dei me ne facciano carico, ma è una novella da inumidir gli occhi dei re.

Agr. Ed è strano che la natura ci costringa a gemere sui nostri fatti più volontarii.