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112 il sogno di una notte d’estate

stizio d’estate noi ci siamo incontrati sui colli, nelle valli, nelle foreste, nelle praterie, accanto alle chiare fonti od ai ruscelli adombrati di giunchi, o sulle rive del mare per compiere le nostre danze ai sibili del vento, che tu non abbia turbati i nostri sollazzi co’ tuoi clamori importuni. Perciò i venti, stanchi di farci udire invano i loro mormorii, hanno estratto dal mare, quasi per vendicarsi, vapori contagiosi, che cadendo per le campagne gonfiarono così l’orgoglio di adusti fiumicelli, che sormontato hanno le loro sponde. Il bue si prestava invano al giogo penoso: l’agricoltore ha perduto i suoi sudori e le sue fatiche; la verde biada, guastata rimaneva prima che la lanugine ornata avesse la sua giovane spica. I parchi son fatti vuoti e deserti in mezzo alle sommerse pianure, e i corvi si alimentano nella mortalità degli armenti; le palestre dei giuochi rusticani son piene di fango, e i cari laberinti che serpeggiano per le amene verzure non possono più discernersi; il filo ne è perduto. Gli uomini han divorziato dalle loro feste: non più canti, non inni, non concerti rallegrano le lunghe notti. La luna, sovrana dei flutti, pallida di sdegno, empie l’aria di esalazioni che diffondono i morbi e le pestilenze; e in mezzo a tanta intemperie le stagioni cambiano; le brine dalla bianca chioma avviluppano il seno delle rose vermiglie: il vecchio inverno mostra sul suo mento e sulla sommità della sua gelida testa una corona odorosa di teneri bottoni mietuti, e insulta all’estate. La primavera, l’estate, il fertile autunno, il minaccioso inverno mutano scambievolmente la loro divisa ordinaria; e il mondo stupito non può distinguere dai loro prodotti quale stagione regni. Tutti questi mali procedono dalle nostre dissensioni; noi soli ne siamo la cagione e gli autori.

Ob. Ebbene, poni riparo a tali disordini; ciò dipende da te. Perchè dovrebbe Titania contraddire il suo caro Oberon? Non le chieggo che un fanciullo per farne un mio valletto.

Tit. Abbiate pace. Tutto l’impero delle Fate non ricomprerebbe quel fanciullo da me; sua madre era della mia corte, e mille volte di notte nell’aria profumata dell’India ella ha goduto, passeggiando a’ miei fianchi. Mille volte assisa accanto a me, sulle auree sabbie di Nettuno, ella osservava gli imbarcati mercatanti, e dopo aver riso, vedendo le vele ripiegarsi scherzevoli alle impressioni dei soavi zefiri, facea opera di imitarle sfiorando leggermente la terra, avanzandosi col turgidetto seno, che portava il mio giovane scudiere; imitando un vascello vogante sulla pianura, per andarmi a cercare inezie che io amo, e ritornare a me come da un lungo viaggio, portatrice di un ricco carico.