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180 capitolo ventiduesimo


— E non allevano bestiame?

— Sì, dei piccoli cavalli.

— E che cosa danno da mangiare a quegli animali, se non possono raccogliere fieno?

— Avete mai udito narrare che nell’Islanda vi siano delle praterie?

— No, signore. Mi hanno detto che in quella grande isola dell’Atlantico settentrionale non vi sono che vulcani e montagne di lava e di pomici.

— Eppure non vi è islandese che non abbia almeno una mezza dozzina, se non due, di cavalli. Qualche praticello, magrissimo, si trova anche su quei terreni tormentati dai vulcani, ma non basteranno a nutrire nemmeno dieci di quegli animali.

— E come vivono allora?

— Di teste di merluzzi e d’avanzi di pesce.

— Oh! Questa è grossa!

— E così anche quelli dei Tibetani si sono abituati a nutrirsi di carni e, quello che è più sorprendente, di carne cruda.

— E non deperisce la razza?

— Al pari di quelli d’Islanda, i cavalli Tibetani sono, a poco a poco, diventati piccolissimi.

— Silenzio, — disse in quell’istante Fedoro. — Odo dei muggiti lassù. —

Avevano allora quasi raggiunto l’estremità del burrone, che in quel luogo si stringeva tanto da rendere quasi impossibile il passaggio.

Da quell’apertura si udivano dei muggiti prolungati, accompagnati da colpi di zoccolo.

— Siamo vicini agli jacks, — disse il capitano, armando la carabina. — Gettiamoci in mezzo a quelle rocce e avanziamo senza far rumore.

— Non udite questi rumori? — chiese Rokoff. — Si direbbe che quegli animali battagliano fra di loro.

— Meglio così; potremo sorprenderli più facilmente. —

Superarono, con non lievi fatiche, un enorme masso che chiudeva parte della gola e gettatisi al suolo si misero a strisciare l’un dietro l’altro, procurando di tenersi sottovento.

Appena giunti allo sbocco del burrone si fermarono tutti e tre, appiattandosi dietro la sporgenza d’una rupe.

Dinanzi a loro si estendeva un minuscolo altipiano, di poche centinaia di passi d’estensione, limitato da una parte