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280 capitolo trentunesimo


Si recò nella stanza da letto e si avvolse nelle coperte di seta, senza più preoccuparsi nè dei Budda viventi, nè del Bogdo-Lama dalla lunga barba.

Quel sonno dovette essere ben lungo, perchè quando si svegliò una profonda oscurità regnava nella stanza. Il giorno era trascorso e la notte era nuovamente scesa.

— Che cosa diranno i monaci? — pensò, sbadigliando come un orso. — Che i loro letti sono molto soffici o che i figli del cielo amano dormire come le marmotte? E Fedoro? —

Si alzò e tese gli orecchi. Al di fuori si udiva il vento ruggire ancora intorno alle torri e sui tetti arcuati del monastero; nell’interno invece regnava un profondo silenzio.

— La burrasca non è ancora cessata, — mormorò. — Che duri dei mesi interi in queste regioni? Il peggio è che con questo ventaccio il capitano non potrà ritornare. —

Scese dal letto, andò a prendere nel gabinetto di toeletta un bastoncino profumato che ardeva ancora e si diresse verso la sala da pranzo.

Tutto il vasellame era scomparso e con esso anche Fedoro e la sua poltrona.

— Che l’abbiano portato via? — si chiese.

Ricordandosi però che vi era un’altra porta all’estremità della sala, s’armò d’una sedia che nelle sue mani diventava un’arma formidabile e la varcò.

Vi era un corridoio eguale a quello che conduceva nel suo appartamento, coperto di paraventi. Lo attraversò con precauzione e giunse in una stanza da letto precisa alla sua.

Fedoro non era stato rapito. Dormiva beatamente su un soffice e ricchissimo letto avvolto in una coperta di seta azzurra.

— Svegliati, — disse Rokoff, scuotendolo vigorosamente. — Hai dormito dodici ore, se non venti o ventiquattro. È un po’ troppo per un Budda vivente. —

Il russo aprì gli occhi, stiracchiandosi.

— Ah! sei tu, Rokoff? — chiese. — Grazie.

— Di che cosa?

— Di avermi portato su questo buon letto.

— Io! Ho dormito come un tasso.

— Chi mi ha messo a letto? Io non avevo mai veduto prima questa stanza.

— Saranno stati i monaci. E il sermone che devi pronunciare domani?