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Sull'Atlantico 155


Di quando in quando una delle sue torri o dei suoi bastioni diroccava improvvisamente, con immenso fracasso e dalle sue cime precipitavano enormi massi causando nuovi guasti e nuove fenditure.

Si sarebbe detto che da un momento all’altro dovesse sfasciarsi tutta e sommergersi.

Piotre l’aveva già notata. Con un comando incisivo fece cambiare la velatura, in modo da presentare la prora al colosso che si trovava a soli cinquecento metri, poi gridò:

— Tenetevi fermi per l’onda! Rispondo di tutto! —

Il colosso polare continuava ad oscillare ed a tuonare come se nel suo corpo scoppiassero di tratto in tratto delle mine. Le sue cime descrivevano degli archi che sempre più si accentuavano.

Piotre, sempre fermo al timone, lo guardava attentamente, cercando di dirigere la Quiqua al largo per evitare la gigantesca ondata che doveva produrre nella sua caduta. Per sua mala fortuna il vento non si prestava troppo per quella manovra, soffiando dal sud-sud-est.

— Cade, — disse ad un tratto papà Pardoe. — Attenti! Tenetevi stretti al bordo o verrete sbalzati sul ponte. —

Il colosso s’inchinò dapprima lentamente, poi rapidamente. Le sue tre vette parve per un istante che dovessero unirsi o precipitare addosso alle torri od ai bastioni, invece rimasero salde.

Furono vedute piombare, poi immergersi bruscamente. L’enorme massa si rovesciò su un fianco, fracassando, con un rombo spaventevole, i ghiacci minori che furono per così dire polverizzati, poi scomparve tutta sollevando un’onda così mostruosa da far impallidire perfino Piotre.

Quella montagna d’acqua che s’avanzava colla velocità d’un cavallo lanciato al galoppo, muggendo cupamente e colle creste irte di spuma candidissima, si rovesciò con im-