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206 Capitolo XV.


— E dov’è la tua tribù? — chiese Piotre, sbarcando.

— È accampata nei boschi, — rispose lo stregone. — Ha veduto il tuo grosso canotto entrare nella baia e si è allontanata dalla costa.

— Che cosa temeva?

— Non lo so, — rispose il selvaggio, alzando le spalle.

— E perchè tu, invece di fuggire come gli altri, ci sei venuto incontro?

— Io sono un jacmusa e non devo temer nulla, possedendo dei malefizii anche contro gli uomini bianchi e potendo scatenare a mio piacimento gli uragani come Yacu-ena.

— E dov’è questo cacciatore?

— Lo troveremo subito; pescava dietro quegli scogli. —

Lo stregone si diresse verso un promontorio di alte rocce, il quale pareva che formasse un piccolo seno, difeso da un numero considerevole di scoglietti disseminati dinanzi alla spiaggia. Vi dovevano essere degli uomini occupati a pescare udendosi di quando in quando delle grida umane e dei latrati.

Piotre, dopo d’aver lasciato due uomini a guardia della scialuppa, aveva seguito l’jacmusa con Mariquita e gli altri.

Superate le rocce, videro infatti sette od otto selvaggi immersi nell’acqua fino alle anche e armati di bastoni coi quali frugavano il fondo del piccolo seno.

Erano accompagnati da una dozzina di cani somiglianti alle volpi, di statura piccola, col muso assai appuntito, le orecchie aguzze e diritte, il pelame assai folto di color rossobruno e di una magrezza spaventosa.

Quei cani sono certamente i più disgraziati della razza, sempre affamati, sempre maltrattati e destinati a finire, presto o tardi, nel ventre dei loro padroni, i quali non sanno ricompensare altrimenti i servizi che essi rendono