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150 capitolo decimosesto.


furioso contro i ferri, facendo oscillare le pesanti gabbie. Era un concerto spaventevole, un miscuglio di miagolìi potenti, di fremiti, di urla rauche, che facevano rizzare i capelli.

Il capitano e il pilota, tenendosi i fazzoletti sulle labbra e il berretto ben calato sugli occhi, si spinsero fino al fondo della corsia.

Giunti colà, attraverso al fumo che diventava sempre più nero e più pesante, videro guizzare delle lingue di fuoco, le quali gettavano bagliori sanguigni sulle nere pareti della stiva.

Ascoltando attentamente, si udiva un cupo ronzìo, interrotto di quando in quando da detonazioni sorde prodotte dallo scoppio dei barili contenenti il petrolio o i liquori e dai crepitìi del legname ardente. Di tratto in tratto il fumo si diradava mostrando nette le fiamme che si allungavano con le contrazioni dei serpenti, lambendo il sottoponte del vascello; ma poi tornava a irrompere sempre più denso, come se venisse cacciato fuori da un vento impetuoso.

— È la dispensa che brucia — disse il capitano retrocedendo e tergendosi il sudore che inondavagli la fronte.

— Sì, signore — rispose il pilota la cui faccia si era fatta oscura.

— Saliamo, o sarà troppo tardi.

Si tuffarono fra i nuvoloni di fumo, salirono rapidamente la scala e apparvero in coperta.

I marinai, pallidi sì ma risoluti a combattere fino all’estremo l’elemento distruttore, avevano già preparate le pompe immergendo le trombe in mare, lungo i fianchi del vascello.

— L’incendio non è per ora grave, — disse il capitano, — ma può diventarlo se non lo combattiamo vigorosamente. Non vi chiedo che calma e sangue freddo, ma vi avverto che chi lascia le pompe senza mio ordine, è un uomo morto. —