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senso 261

a me stessa, mai tanto sana e allegra e contenta di me, della vita, di tutto e di tutti. La seggiola di paglia su cui mi adagiavo in Piazza San Marco diventava un trono; credevo che la banda militare, la quale suonava i valzer degli Strauss e le melodie del Meyerbeer innanzi alle Procuratie vecchie, indirizzasse la sua musica soltanto a me, e mi sembrava che il cielo azzurro e i monumenti antichi godessero della mia contentezza.

Il luogo dei nostri ritrovi non era sempre il medesimo. Alle volte Remigio in una gondola chiusa mi aspettava alla riva sudicia di una lunga calletta buia, che riesciva ad un canale stretto, fiancheggiato di casupole tanto gobbe e storpie da parere crollanti, e alle finestre delle quali pendevano cenci di ogni colore; alle volte, lasciata la prudenza, si entrava in barca da qualche luogo frequentato della città, persino dal Molo innanzi alla Piazzetta. Coperta il viso d’un denso velo nero, andavo da lui in una casa accanto alla caserma di San Sepolcro, incontrando nell’ombra fitta delle scale tortuose ufficiali e soldati, che non mi lasciavano passare senza porgermi un segno della loro galanteria. In quella casa, dove il sole non batteva mai, il tanfo della umidità si univa al puzzo nauseabondo del fumo di tabacco, stagnante nelle camere non ventilate.