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262 senso

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Questo avvocatino Gino mi secca. Guarda con certi occhi stralunati, che spesso mi fanno ridere, ma qualche volta mi fanno gelare; dice che non può più vivere senza la carità d’una mia parola d’affetto; implora, piange, singhiozza; mi va ripetendo: — Contessa, si ricorda quel giorno in cui lì sull’uscio, voltandosi, mi disse con la voce di un angelo: Sperate? — ed insiste, e torna ad invocare pietà, a singhiozzare ed a piangere. Non ne posso più. Giorni sono gli lasciai la mano: la baciò più volte così forte che mi restarono per un poco delle macchie livide sulla pelle. Insomma, sono stufa. Ieri, persa la pazienza, gli gridai che mi lasciasse in pace, che non si attentasse mai più di rimettere il piede in casa mia, e che se avesse ardito ancora di comparirmi innanzi, l’avrei fatto cacciare dai servi e avrei raccontato ogni cosa al conte. L’avvocatino impallidì per modo che i suoi occhi neri parvero due buchi in una faccia di gesso; s’alzò dal canapè barcollando ed uscì senza guardarmi. Tornerà, tornerà, scommetto. Ma è un gran dire che a commuovermi l’anima non ci sia altro verso che il rammentarmi d’un uomo, nel quale, ad onta della mia furibonda passione, vedevo intiera la bassezza infame.