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senso 267

di tanto baccano. Remigio con uno strappo violento mi cavò dalla folla.

L’altra volta che un poco il mio amante mi spiacque fu per questa cagione. S’era fatto udire nel caffè Quadri, ciarlando in tedesco a voce alta con alcuni impiegati tirolesi, a dir male dei Veneziani. Un signore, che stava in un canto, s’alzò di sbalzo, e piantandosi di contro a lui, che era in uniforme, gridò: — Vigliacco d’un militare — e gli buttò in faccia tre o quattro de’ suoi biglietti da visita. Ne nacque un parapiglia. Il dì seguente i padrini dovevano combinare il duello; ma Remigio, avendo notato che il suo avversario era piccolo, mingherlino e gracilissimo, rifiutò la pistola, rifiutò la spada, e, benchè la scelta delle armi spettasse allo sfidato, volle ad ogni costo la sciabola, sicuro com’egli era della forza del proprio braccio. Il Veneziano si piegò alla prepotenza; ma, prima del duello, era già in carcere, ed a Remigio veniva trasmesso l’ordine di andare immediatamente ad una nuova destinazione in Croazia.

Quando seppi la cosa mi disperai: senza quell’uomo io non potevo vivere. Tanto feci presso la moglie del Luogotenente, e tanto si adoperò mio marito, sollecitato da me, presso il Governatore ed i Generali, che Remigio ottenne di venire mandato a Trento, dove io ed il conte dovevamo tornare appunto in quei giorni. Tutto fino allora era andato a seconda della mia cieca passione.