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dei soldati, resi più audaci dalla disciplina allentata e dal pensiero degli stessi pericoli a cui andavano incontro?


Una mattina, all’alba, dopo una eterna notte di smanie, m’ero addormentata, quando a un tratto un romore mi sveglia; apro gli occhi e mi vedo accanto Remigio. Mi parve un sogno.

L’aurora illuminava già di luce lieve e rossastra la camera; scesi con un balzo dal letto per chiudere le tende dell’alcova, e si cominciò sotto voce a discorrere. Ero inquieta; il conte, che dormiva a due stanze d’intervallo, poteva sentire, poteva venire; i domestici potevano avere visto il mio amante entrare furtivamente a quell’ora. Egli mi rassicurò con poche parole impazienti: aveva picchiato, come altre volte, ai vetri della finestra terrena, dove la cameriera dormiva; ella pian piano gli aveva aperto il portone, ed era entrato senza che nessuno sospettasse di nulla. Della cameriera m’importava poco, giacchè sapeva ogni cosa; ma il peggio stava nell’uscire: bisognava spicciarsi. Tornai a sbalzare dal letto; andai ad origliare all’uscio della stanza di mio marito: russava.

— Ti fermi a Trento, non è vero?

— Sei matta.

— Qualche giorno almeno?

— È impossibile.

— Uno?