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vade retro, satana 43

sare un’acqua. Anche in casa, se gli parlo, mi risponde sì o no, o non risponde affatto; ogni sua parola, quando finalmente la dice, è un rimprovero o, che mi duole ancora più, un sarcasmo: non so più nè vestirmi, nè pettinarmi, nè quasi mettere alla bocca il cucchiaio, nè adoperare la forchetta e il coltello. La casa gli sembra piccola; non gli piace nè il desinare nè la cena, per quanto io mi lambicchi nell’indovinare i suoi gusti e nel condire e cuocere le vivande. È andato quattro volte a cenare all’osteria con i carrettieri, ed anche le altre sere, quando non è alla villa o non esce per i suoi malati, va a bere la genziana, e ne beve (mi vergogno) più di un bicchierino di certo. Allora poi! Mio signor curato, mio buon Don Giuseppe, mi aiuti: io ci perdo la testa e ci muoio. A mio padre, alla mamma non posso dir nulla; ella, Don Giuseppe, è la sola persona sulla terra che mi sappia compatire e soccorrere.

E divento anche cattiva. M’affatico a stargli intorno con le carezze, con le dolcezze; mi respinge, ed io torno più mansueta che mai; ma qualche volta non posso; sento nascermi dentro come uno spirito fiero di ribellione, nuovissimo, incomprensibile, e ch’è pure tanto contrario alla pieghevolezza della mia natura. Provo una sensazione che non aveva provata mai: un’agrezza, un’amarezza profonda. Oramai conosco il sapore del fiele. Comprendo tante cose di cui prima non capiva nulla: un