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tazione; fa un accavallamento, una furia, un delirio, una rovina — poi un grido incomposto: giunta quasi all’apogéo del suo turbine musicale, la suonatrice aveva sbagliato.

— Ha sbagliato, ha sbagliato! — esclamò Clelia presa da un grande terrore.

E sul volto le si dipingeva l’angoscia, le mani tremavano, tutto il suo corpo fremeva come all’aspetto di un pericolo mortale.

— Ebbene? — chiese Giorgio con la sua voce sarcastica.

— Nulla... — rispose lei, e cercò ricomporsi.

La suonatrice ricominciava il suo pezzo: rifece tutto il cammino percorso. mettendovi anzi più anima, risalì la gamma placida, quella del riso argentino, montò al momento agitato, arrivò al culmine e l’urlo selvaggio si intese di nuovo: di nuovo aveva sbagliato e questa volta anche peggio. Si ostinò, e per tre o quattro volte di seguito, principiò da capo per finire sempre nell’istesso modo: ci metteva una pazienza, un’attenzione mirabile — inutile. Quando giungeva al punto fatale, un timore panico l’assaliva, non era più padrona di sè; esitava e cadeva; non le era possibile superare quel punto; era un problema chiuso, una difficoltà insormontabile. Era uno spasimo sentirla andar così bene, proceder con cautela, mettere in opera tutte le più trillanti risorse dell’esecuzione, abbondare, essere artista, poi d’un tratto precipitare in un modo ridicolo: in Clelia si riflettevano tutte queste varie impressioni. Dapprima ascoltava, era sorridente, godeva quasi, poi la sua calma si turbava, il