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telegrafi dello stato | 57 |
— Con le isole, è guasta ogni comunicazione.
— Molti dispacci, fermi?
— Sette.
— Poco male, li manderemo per posta. —
Sotto quella pioggia continua, in quella umidità che impregnava l’aria, le strade, le persone, i vestiti, le anime, il servizio telegrafico era tutto un lavoro di pazienza. Quando entravano in servizio, le ausiliarie guardavano il cielo, facevano una smorfia di sfiducia e chiamavano il corrispondente. Talvolta, sul principio, il servizio procedeva bene, per un’ora, per due: a un certo momento i segni scomparivano e l’ausiliaria pensava: ci siamo: «Madonna assistimi». Ma più spesso il guasto si dichiarava dal mattino, il tormento si manifestava subito dal buongiorno del corrispondente che Napoli non sentiva, e dal buongiorno di Napoli che il corrispondente non sentiva. Le sette ore di servizio passavano, consumate in tentativi vani di farsi sentire, battendo forte il tasto, facendo i segni lunghi, chiari, lentissimi.
— Per carità, direttrice, — mormorava l’ausiliaria, — la nostra pila è troppo debole, aggiunga qualche cosa d’altro.
— Avete già trenta elementi di più: che posso farvi? — rispondeva la direttrice, desolata.
— È inutile, è inutile, — soggiungeva l’ausiliaria. — Otranto non mi sentirà mai. —
La corrente partendo o giungendo, soffriva un morbo capriccioso e strano che la prendeva a sbalzi, che le dava tregua per due ore e la prostrava per una giornata, che la faceva balzare, subitamente ringagliardita o la