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218 La Conquista di Roma

in quella stanza, in quel giorno brutto di marzo, si gelava.

«Non hai freddo, Franz?» chiese Elena, dal divano, dove contemplava curiosamente il lusso dei quadrati all’uncinetto.

«Un poco,» mormorò lui, senza lasciar di scrivere.

Ella contemplò di nuovo la stanza tutta nella sua meschinità, sentì quel fiato di miseria decente che vi alitava, e contemplò lui che scriveva alacremente, su quel piccolo tavolino, dove gli toccava stringere i gomiti per non far cadere le carte. E negli occhi della donna guardante quella testa indomita di lavoratore, si dipinse una tenerezza nuova che egli non vide. Due volte ella fu per dirgli qualche cosa: ma pensando, tacque. Appoggiata alla console, ora, ella ridacchiava fra sè, guardando le tre fotografie, di un caporale, di un grasso signore, di un ragazzotto collegiale del Nazzareno, guardando le tre sacrileghe oleografie che rappresentavano la famiglia reale.

«Franz? ti sei mai fatto la fotografia?» domandò, mirandosi nello specchio, e aggiustandosi il fiocco del cappello.