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La Conquista di Roma 293

spire eleganti salirono dall’altare alla vôlta, sempre più sfumate, sempre più lievi, perdentisi come preghiere per salire sino al trono della divinità. E l’incenso aveva anche sapore aromatico di pianto: e il profumo, salendo dalle nari al cervello, agiva profondamente sui nervi, carezzandoli con una amarezza voluttuosa. Nella penombra tutto parve ondeggiasse a quel bacio triste e aromale, i volti femminili parve si piegassero tutti, per nascondere il tremolìo delle labbra: e la testa della donna che egli guardava, reclinò, come se le mancasse la forza. Egli trasalì, fece quasi per accostarsi a lei e sostenerla: ma una singolare paralisi teneva legati i suoi movimenti. L’incenso bruciava, bruciava, nei vaselli d’argento, senza fiamma incandescente, vincendo le ultime forze sue.

Un campanello risonò, con uno squillo che parve sonoro in tanto silenzio ed era debole: donn’Angelica scivolò dalla sedia sul marmo freddo del pavimento, chinò la testa fra le mani, non era che un mucchio di roba nera, abbattuta per terra, ignorata, ignorante, smarrita. E lui, senza inginocchiarsi, senza chinare il capo, senza pregare, sentiva di essere annientato nell’annien-