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alfredo panzini 135

di perle e di brillanti per uscire vaga ed errante pel cielo». Documenti della intonazione poetica si possono trovar largamente anche in quel poco che sopra fu riferito: e abito di esclamazioni e di commozioni e di apostrofi, e uso di contemplar con passione le cose della natura e prestar loro quasi ingenuamente e senso e voce viva.... La sua formula poi si trova facilmente; ed è quella stessa risoluzione, ch’io accennavo anche prima, della cosa semplice nei suoi elementi generici come se uno dica la bianchezza dei gigli e le giovani primavere invece che gigli e giovinezza, così alla buona. È insomma più una intenzione poetica che non una forma schiettamente espressa di poesia; e tale che, avendomi fatto venire in mente più d’una volta un altro scrittore romagnolo, molto amante non meno di contorni fantastici di cielo e sole e stelle, che di travestimenti astratti e solennemente figurati, m’ha suscitato anche il dubbio se non si tratti di una qualità nativa del sentire romagnolo. Pensavo al carattere della nostra gente, così poco poetica per uso, ma pur così seria e piena nei moti dell’animo, così avvezza a dare una significazione intensa al suo parlare rotto e monco; e mi pareva che lo scrivere di costoro, del Panzini e del Beltramelli (e di altri che ora non accade ricordare) con quel colorito di poesia imperfetta e pur sincera, potesse trovare in quello qualche ragione. Ma questo sarebbe tutt’altro discorso; e per ora ne sia abbastanza un cenno.

Torniamo al Panzini e alla sua poesia, che ha dei doni assai più cari. Egli ha dalla natura, per quanto non sempre e non con uguale felicità, il dono della espressione classica: voglio dire di quella espressione piena e definitiva che par che