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34 scritti di renato serra

«il bosco.... Cui tutto io già scampanellare udia Di cicale invisibili e d’uccelli»). È chiaro che egli profferisce quelle sillabe con un suo particolare sentimento, che esse gli rendono, a udire, un suono quasi vergine; un poco più tardi egli insisterà più profondamente, sul canto dell’usignolo:

.... la cobbola giuliva
parve un picchierellar trito di stelle,
nei ciel di sera che ne tin tin ni va.

Si sente in questi versi qualche cosa di nuovo; un’eco quasi materiale di quella fioritura e punteggiatura di trilli, così liquidi e balzeanti.

Ma non è ancora il canto nella sua realtà. Ed ecco sul labbro del poeta tornare, pur con qualche vaghezza arguta d’umanista, il ritornello aristofanesco; ancora un passo, e sarà la riproduzione materiale, lo scilp, vitt, videvitt, delle Myricae: il tell terell tell tell, il rere rere e lo hu hu dei Canti di Castelvecchio.

Il lettore ci sorride, come a bizzarrie; ma a torto; poichè in codeste bizzarrie ci si rappresenta l’ultima prova della virtù espressiva del poeta, in quel punto in cui egli ha insistito tanto che la forma tra le mani gli è scoppiata.

Potrei citare la pioggia, il tuono, lo spaccalegna, il terrore della fuga (Mecisteo di Gorgo), le statue greche in «Sileno», e via via, tanti quasi pezzi di bravura in cui il bisogno e la virtù di realizzare si dimostra. (O non ricordate le formiche, quelle di Psiche, frugole succinte, e quelle del ciocco

(Ma un’altra vita brulicò nel legno
che intarmoliva....
. . . . . . . . . . . .
così passava la lor cauta vita
nell’odoroso tarmolo del ciocco)?