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138 Sonetti del 1831

L’OCHE E LI GALLI.

     Ar tempo de l’antichi, in Campidojjo,
Dove che vvedi tanti piedestalli,1
Quell’ommini vestiti rossi e ggialli,2
C’ingrassaveno l’oche cór trifojjo.

     Ecchete che ’na notte scèrti galli
Vièngheno pe’ ddà a Roma un gran cordojjo:
Ma ll’oche je sce mésseno uno scojjo,
Ché svejjòrno un scozzone de cavalli.3

     Quell’omo, usscito co’ la rete in testa4
E le mutanne sole in ne le scianche,5
Cacciò li galli e jje tajjò la cresta.

     Pe’ cquesto caso fu che a ste pollanche6
Er gran Zenato je mutò la vesta,
Ch’ereno nere, e vvorze7 falle bbianche.8

Terni, 4 ottobre 1831.

  1. [Cioè, nel cortile del Palazzo de’ Conservatori, dove sono tutte le basi del tempio di Nettuno, e molte altre ancora.]
  2. I così detti Fedeli del Campidoglio. [V. la nota 3 del sonetto: Er presepio ecc., 27 dic. 32.]
  3. [Tale diventa nella mente di questo nipote degenere il vir bello egregius di Tito Livio!]
  4. [Quando il Belli scriveva questo sonetto, c’era ancora tra gli addetti alle stalle o alle scuderie chi portava la rete in testa, come i bravi del Manzoni: usanza che oggi, almeno in Roma, è del tutto perduta.]
  5. [Cianche, gambe.]
  6. [Propriamente, “pollastre;„ ma qui sta per le oche.]
  7. [Volle.]
  8. [Figlio dell’oca bianca si chiama, anche nell’Umbria, nelle Marche e altrove, “un favorito, o meglio uno che sia o voglia essere esente privilegiato da un danno o peso comune„ (Cfr. vol. VI, pag. 122, nota 6); e questo modo proverbiale può ingenerar l’opinione che un tempo le oche bianche fossero rarissime: opinione, del resto, che se pure il modo fosse nato da qualche novellina, o, come alcuni credono, dal latino gallinae filius albae (Giovenale, XIII, 141; — Maes, Curiosità Romane, parte III; Roma, 1885; pag. 54-58), potrebbe tuttavia trovare anche un certo appoggio scientifico nel fatto che le oche selvagge son sempre grige. È quindi probabile che il Belli abbia voluto con questi versi spiegare burlescamente la contradizione che esiste tra il significato usuale di codesto modo e l’abbondanza delle oche bianche. Ma è anche probabile che egli abbia voluto alludere a un’altra cosa. “Nella quinta sala di quelle dette de’ Conservatori„ (mi scrive l’amico Porena, dotto e accurato rifacitore dell’Itinerario del Nibby), “si vedono due anitre di bronzo, quasi nere, le quali fino ai giorni nostri furono chiamate le oche del Campidoglio, e credute comunemente i simulacri votivi di quelle appunto che salvarono Roma dai Galli; mentre invece esse sono, come dico, due anitre, e v’è sicura memoria che vennero trovate nei giardini di Sallustio. Potrebbe dunque darsi benissimo che il dotto popolano introdotto a parlare dal Belli, credendo che codeste anitre del Palazzo de’ Conservatori, al cui cortile si riferisce indubitabilmente il secondo verso del sonetto, siano i ritratti delle storiche oche, e vedendole nere, immagini che le oche attuali siano bianche per un decreto del Senato. Forse il Belli volle darci, come in altri sonetti, un saggio dell’erudizione popolare di Roma, o parodiare quella degli archeologi del suo tempo, che, troppo corrivi, avevano battezzato le anitre di Sallustio per le oche del Campidoglio.„ — Tornando all’origine del modo, potrà esser d’aiuto o anche d’impedimento a trovarla, ma sarà sempre utile il sapere che in Sicilia la bestia cambia colore: Figghiu di la gaddina nìura.]