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Elis. — Oh, giusto! Donne perchè ha fatto troppo chiasso e si è stancato.

Lina. — Cattivo segno però. (Entra nella camera mentre la vecchia la guarda scrollando il capo in aria di compassione).

Elis. (da sè). — Sarebbe una liberazione per lei se le morisse... e lei non vive che per lui! Sempre così noialtre disgraziate.

Lina (rientra senza cappello e senza mantello; siede a colazione. Elisabetta serve). — Che malinconia mangiare senza di lui! Povero angelo. Pare tranquillo; ha le carni fresche. Ma è impossibile che stia proprio bene, qui, sempre qui, lui che era abituato in compagna, all’aria libera..., povero amore!

Elis. — Mi pare che non è sempre chiuso qui.

Lina. — Oh, Dio! per quelle poche passeggiate.... ci vorrebb’altro!... Ci vorrebbe un giardino, dei piccoli compagni.... Invece, anche quelle poche passeggiate sono un pericolo. Se tu sapessi, Elisabetta, se tu sapessi che spasimo stamattina!

Elis. — Cosa è successo?...

Lina. — Eravamo lì in sala, in un momento di riposo; si chiacchierava secondo il solito; allorché la direttrice, piantandomi in faccia quei suoi occhi, che pungono come punte di spilli, mi domandò di chi era il bambino che avevo con me domenica. Si era fatto silenzio e tutte aspettavano la mia risposta.

Elis. — Oh, le sarà parso! Via, non si affanni così; mangi questo pezzetto....

Lina. — No, mi basta. Mangerò piuttosto questa pera. Mi sará parso, tu dici? Può darsi. Ma io mi son sentita morire. Mi pareva impossibile di poter dire una parola.

Elis. — Non si sarà fatta scorgere, spero?

Lina. — Credo di no. Se non mi hanno tradita le fiamme che mi salirono al viso. Trovai, non so come, la forza di dire che era un mio nipote, figlio di una mia sorella maritata nel Veneto — come diciamo a tutti. Ma la mia voce tremava. Una volta o l’altra mi tradirò; è così brutto mentire! (si alza).