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Un vile. E lo amava!

L’istinto della propria conservazione le gridava di confessare tutto a Leopoldo; di parlare alto; di reclamare il proprio diritto. Ma come? Con quale coraggio, se Paolo non la guardava neppure, pronto a rinnegarla?

Si faceva mille rimproveri, si insolentiva. Falsa, ipocrita! Aveva ascoltate le preghiere di Annetta, restia e titubante, come se temesse il pericolo, mentre al pericolo anelava con tutta l’anima: mentre la passione oscuramente ve la spingeva giovandosi di ogni pretesto.

Vile! Vile! Abbietta figlia di zingari, divorata da un ardore invincibile.

Perchè amava quell’uomo?

Non aveva sempre detto che non le piaceva, che era molto inferiore all’ideale vagheggiato da lei nei dolci sogni giovanili?

Quando il babbo aveva parlato di lui con disprezzo, non aveva ella trovato giusto il severo giudizio?

Sì. Eppure lo amava. E quell’amore l’attirava tanto più, quanto più le appariva pericoloso, funesto. Subiva la vertigine dell’abisso. Ben le stava di spasimare, di gemere, disprezzata, reietta. Doveva punirsi, sparire. Non vi era scusa per lei. Annetta meritava di essere felice: lei no. E anche senza questo, ella doveva sacrificarsi. Dacchè tutte e due amavano lo stesso uomo, ella doveva cedere il passo. La vagabonda ab-