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Diceva così perchè voleva illudersi che non fosse vero; ma, sicuro della verità, tremava raccapricciando.

— Non vaneggio, no; non sono pazzo ancora. L’ho ammazzato.

— Ma come? Perchè?...

— Mi ha insultato: ho perso la testa. Prendi. Questa è la chiave della sala da pranzo dove l’ho chiuso perchè le donne non si spaventassero. Va, ti prego, conducile via subito; conducile a Milano. La mia povera Annetta sarà disperata.

S’inteneriva al pensiero della figlia sua. Le lagrime gli facevano nodo alla gola.

— Vado in questura a consegnarmi — disse, dominandosi. — Prendi il mio portafogli, questa è la chiave della mia scrivania. Prendi il denaro necessario. Addio!

Fece alcuni passi; poi si voltò, vide il povero Fabbi come impietrito sull’uscio di casa, gli occhi fissi su lui. Tornò indietro, profondamente commosso e gli buttò le braccia al collo singhiozzando.

Fabbi piangeva in silenzio.

Passò una donna con un bimbo per mano, e si fermò a guardarli nella penombra.

— Va, Marco, addio! Fatti coraggio. Ti raccomando la mia povera Annetta!

— Addio! Oh! se avessi immaginato una catastrofe simile, non t’avrei lasciato solo neppure un minuto. Avrei dovuto pensarci.