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Gioachino, quattro uomini alti e robusti piantavano la giostra, silenziosi e rapidi, con dei movimenti misurati, quasi automatici. Ed egli stesso dava qua e là una mano, sempre svelto, sempre forte, col suo eterno berretto di pelle a visiera sporgente; gli occhietti vivi, il grosso naso troneggiarne su i folti baffoni. Sempre orso, ma quasi completamente orso bianco; sempre grande e grosso, ma le guance alcun poco floscie, e pronto ad impicciolirsi, come un vecchio cannocchiale che rientra alla menoma scossa. Il destino gli aveva dato un fiero colpo. Il marito di Nini, quel famoso attachè d’ambassede ne aveva fatte d’ogni colore, e la sua vera condizione d’impiegato subalterno era venuta a galla. Ah! che colpo per la signora Marta!

Ad evitare un processo, che avrebbe tirata nell’ingranaggio anche la bella Nini, troppo smaniosa di tener testa alle ricche borghesi, i poveri vecchi avevano dovuto pagare di borsa propria. Un vero disanguamento, com’essi dicevano. Così la giostra era passata in mano di una società di ricchi speculatori: «per un pezzo di pane» gemeva la buona Marta, con le lagrime agli occhi. Gioachino von Roth non era più che un direttore salariato e ben vigilato dai soci proprietari.

— Pazienza — diceva il buon diavolaccio — pazienza, se almeno avesse fatto giudizio quel pezzo d’asino!