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la esperienza delle cose e degli uomini, che egli aveva e lei no.

Ma al pari di Emma, Leopoldo conosceva la violenta ostinazione di Annetta. Una volta, da piccina, essa aveva assolutamente voluto mettere una mano nel fuoco. Invano le avevano gridato «Fa male! Brucia! Guardatene bene!» Ohibò! Dura come il bronzo ella aveva sempre risposto «Non è vero!» Finchè era riescita a fare quello che voleva; e sentendo il bruciore era corsa a farsi medicare un ditino piagato, gli occhi pieni di lacrime, ma senza un lamento.

Dopo il pranzo, che il padrone di casa trovò eccessivamente lungo, alcuni dei convitati si riunirono sulla veranda a prendere il caffè; altri scesero in giardino conversando allegramente, divisi in gruppi, secondo le età e le simpatie.

La stagione essendo ancora un po’ fresca, avevano pranzato al primo piano nella sala che guardava a mezzogiorno con le tre portiere della veranda tutte ornate di fiori.

Vedendo che sua moglie e le due ragazze bastavano a fare gli onori di casa, Leopoldo passo in salotto e si mise al piano, come un naufrago che afferra la riva.

Quella gente lo annoiava. I suoi stessi parenti, specialmente due vecchie zitellone sorelle del defunto suo padre, gli erano press’a poco insopportabili. Due soli si salvavano: suo cognato Andrea Fabbi, vedovo