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di non aver trovato l’araba fenice, e cercò di dominare il suo padrone, rendendo la propria esistenza meno arida e noiosa, con l’aiuto della pazienza e dell’astuzia, come — seguendo le massime di una certa prudenza — ogni saggia donna dovrebbe fare.

L’abisso andò così scavandosi d’ora in ora tra i due incatenati.

Ma il peggio fu, allorché, morti i genitori, Leopoldo, ricco e indipendente, non volle saperne di lasciare il borgo nativo per la vicina città. Stabilirsi a Milano, brillare in una vera società elegante, fare la signora: tale il sogno di Cleofe. Vedersi così bella, sentirsi agguerrita e forte, e dover vegetare in quel piccolo paese, in una società quasi rustica! Le malinconie di Leopoldo, le bizzarrie fantastiche, la freddezza sempre maggiore, tutto ella avrebbe sopportato, e il pesante fardello le sarebbe parso leggerissimo, se egli avesse acconsentito a trasferirsi nella grande città, appagando il desiderio intenso di emergere e di godere che la divorava.

Leopoldo restò imperterrito, e, al solito, senza accettare apertamente la battaglia.

Eluse la questione, con abilità naturale al suo spirito, fingendo di non capire, lasciando cadere le conversazioni suggestive preparate di lunga mano.

Di un’altra cosa, egli si occupò invece. Fece uscire dal convento di Santa Chiara sua sorella Celeste già sul punto di pronunziare i voti: la dotò largamente,