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nell’ingranaggio 7


— Allora — diceva ingenuamente — che serve studiare? E che diavolo v’insegnano quei professoroni, se non riescono neanche a levarvi questi grilli dal capo?

Appena finiti gli studii e ottenuta la patente di maestra, Gilda s’era messa in cerca di un posto.

E ora finalmente, in capo a sei mesi, l’aveva trovato, grazie alle buone raccomandazioni della contessa Vimercati.

Era una condizione invidiabile quella che le veniva offerta in casa della signora Pianosi, una bella dama forestiera, celebrata per il suo spirito e la sua cultura, che aveva sposato uno dei più ricchi banchieri di Milano.

Lei sarebbe stata trattata come una persona della famiglia, più cinquanta lire il mese e la sola cura di una bambinetta di sei anni che doveva avviare lentamente allo studio; molto lentamente, poiché la signora Pianosi non voleva che la bimba fosse tormentata troppo presto dalle aridità dell’insegnamento.

Certo, Gilda aveva sognato altro. Si sentiva chiamata agli studii superiori, alle ricerche ardite che il suo professore di scienze naturali le aveva lasciato intravedere; ma poiché la sua vecchia zia non poteva mandarla all’Accademia, nè al Liceo, le pareva sempre meglio andare a vivere in una casa di signori, piuttosto che star là a languire, in quella vita nojosa, cavandosi gli occhi sopra un ricamo che le fruttava ottanta centesimi il giorno. E poi, era l’ignoto quella casa, era l’avvenire, forse difficile, forse avventuroso, come se lo era finto tante volte nelle sue divagazioni durante le lunghe e tediose ore di lavoro.