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nell’ingranaggio 131


— O Gilda! — le disse — se sapeste quanto soffro! quanto mi sento oppressa! non potete figurarvi quanto sia grande la vergogna ch’io provo trovandomi in tale posizione davanti a voi, mentre voi chi sa, chi sa mai 1 quanto male avete pensato di me!...

— Io?... No davvero, Signora! Non spetta a me giudicarla — mormorò la fanciulla.

— Non spetta a voi! capisco quello che volete dire. Ma certo mi giudicate una gran colpevole... lasciatemi parlare. Sì, sì, lo so, sono colpevole. Non mi è bastato l’amore della mia Lea, non mi è bastato l’essere moglie e madre felice, ho lasciato che il mio cuore desse posto ai sogni, alle illusioni funeste! Pazza! dite pure: pazza!... Ma deh, Gilda, vi prego, non dite infame! Vi giuro, per quello che vi ha di più sacro, per la mia Lea che adoro: non ho mai macchiato il mio onore I Sono come voi, innocente.... e imprudente. Soltanto che in voi, perchè avete vent’anni, perchè siete libera, perchè non siete madre, l’imprudenza è perdonabile. In me diventa delitto. Un delitto tanto più grave, chè non ho mezzo di giustificarmi pienamente, e che agli occhi del mondo le apparenze bastano per disonorare una donna, e peggio ancora il manto di lei! Eppure, credete, io potrei giustificarmi, se qualcuno fosse tanto generoso da credermi: fu la pietà, un sentimento generoso, che mi trasse sull’orlo del precipizio. Ma ho lottato, veh, Gilda: posso dire che ho sostenuto lotte terribili e che ne sono uscita vincitrice — sebbene apparentemente vinta!

— O Gilda! — ella riprendeva dopo un momento di silenzio — non state a guardarmi con quell’aria