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nell’ingranaggio 139


— Sai, Gilda? Oh! che ridere! lui non voleva credere che tu eri tornata! Come se Lea fosse bugiarda, eh?

Giovanni si avvicinò: era pallidissimo, e non trovò che poche frasi sconnesse per esternare alla giovane il piacere che aveva di rivederla. In compenso la sua stretta di mano fu più eloquente.

Si misero a tavola come nei tempi passati, quando Giovanni Pianosi era ancora ignaro della infamia che pesava sulla sua fronte, e sprezzando i pericoli che lo minacciavano, faceva dei bei sogni col cuore dolcemente scaldato da un amore romanzesco — quando Gilda Mauri si abbandonava con fanciullesca spensieratezza alle prime dolcezze di quell’amore.

Nell’apparenza nulla era cambiato. La sala aveva sempre il suo aspetto di ricchezza solida, con le pareti rivestite in legno di noce fino a un metro e mezzo di altezza, con le vaste credenze per argenteria e le porcellane, col largo specchio prospicente la tavola, il cui servizio massiccio, di argento, di porcellana inglese e cristalli di Boemia, tutto fatto fare a posta con la cifra del Banchiere, scintillava ai raggi intensi delle due grandi lampade a gaz.

Il domestico che portava intorno i piatti aveva la stessa faccia bonaria e sarcastica, coperta da una maschera di profonda soggezione. I padroni chiacchieravano tranquillamente di politica o di cronaca cittadina, del Ministero e del Municipio, di teatri e di attori, di maestri e di cantanti, e di tutti gli argomenti neutri che la civiltà mette alla portata di tutti, con pensieri belli e fatti, i quali servono non solo a chi non sa pensare, ma