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192 nell’ingranaggio


Ma questo pensiero non le si affacciò nemmeno.

Poteva ella pensare a sè in quel momento?

La sua commozione era tanto forte, che non solo le toglieva la facoltà di riflettere, ma l’acciecava materialmente. Fece alcuni passi incerti, non sapendo da qual parte dirigersi. La camera era debolmente rischiarata e i suoi occhi offuscati dalle lagrime non distinguevano gli oggetti.

Il letto dell’ammalato era in fondo a una alcova, chiusa da tende di seta rosso cupo, che il medico aveva alzate; il resto della camera era mobiliato a uso sala da studio; una grande vetrina piena di libri, delle panoplie, alcuni quadri antichi, coprivano le pareti. Sul pavimento era steso un tappeto scuro, che in quella penombra pareva nero. Nel mezzo stava una grande scrivanìa, con una lampada antica pendente dal soffitto e coperta da un paralume di seta ornato di ricami che lo rendevano molto pesante ed opaco. Davanti alla scrivanìa una poltrona. Gli altri mobili rimanevano affondati nell’ombra.

Ella si avvicinò istintivamente alla scrivanìa ed entrò nel circolo luminoso, che i raggi della lampada tracciavano sul tappeto.

Il medico la vide, uscì dall’alcova e le mosse incontro per prendere l’involto che gli portava. Poi ritornò subito vicino al malato.

Questo medico era un uomo piccolino, esile, il quale soffriva di reumatismi e digestioni difficili. Quella sera aveva tutta la parte inferiore del volto, avvolta in un fazzoletto di seta per un ingorgo di glandole, che lo tormentava. Molte volte egli era più ammalato dei malati che visitava;