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nell’ingranaggio 197

padre, il padre di suo padre, e altri e altri onorati uomini avevano consacrato la miglior parte del loro intelletto e della loro attività, avrebbe ricevuto una scossa, forse irreparabile. Poichè egli aveva un bell’aver vinto, non poteva dissimularsi che la sua banca usciva da una crisi gravissima, e che era ancora troppo debole per chiudere le bocche con l’oro.

No, no. Era inutile illudersi; egli non poteva liberarsi mai più.

E per la prima volta in vita sua la società gli era apparsa come un enorme e mostruoso congegno pieno di ruote, di seghe, di punte di ferro che gira ciecamente intorno a sè stesso, senza scopo nè meta, portando sopra di sè una immensità di creature tutte affannate per mantenersi nel piccolo posto sicuro che sono arrivate a conquistare o che hanno avuto in eredità, per non cadere nel vuoto, dove le ruote cigolano, e gli ingranaggi implacabili lacerano le carni, stritolano le ossa degli infelici che vi sono precipitati. E si era sentito stretto anche lui in quei meccanismi fatali: si era sentito vinto, spezzato.

Tali erano stati gli avvenimenti, le battaglie intime e i pensieri lugubri, che avevano fatto stramazzare quel corpo da gladiatore.

Vedendolo là, su quel letto, in preda al delirio e alla febbre, il buon medico non poteva indovinarli; qualche cosa però, una parte del vero traspariva al suo sguardo acuto di scienziato, uso a studiare dei sintomi per indovinare delle cause. Egli voleva salvarlo quel forte ammalato, non soltanto perchè la sua missione era di strappare quante più vittime poteva alla perfida azione