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nell’ingranaggio 273

palcoscenico, a parlare con l’attrice, a prendere degli appunti stupefacenti; Riccardo Lozza, freddo, con la sua aria di sfida, il sorriso ironico e fine.

Questi non avevano palco nè posti; ma l’ingegnere Santini e il capitalista Guglielmo Ferretti, che continuava a far scricchiolare i suoi abiti di panno fine con i suoi muscoli da facchino, li invitarono a entrare in uno di quei larghi palchi laterali, dove dieci uomini possono accomodarsi.

La sala, ora, era riboccante di spettatori impazienti e curiosi. L’orchestrina suonava, incalzando il tempo e con qualche stonatura, la cabaletta della vecchia aria d’amore. Il teatrino era proprio bello con i suoi velluti rossi, le sue tele greggie, le pitture tenui, l’illuminazione ben distribuita, e tutto quel pubblico elegante e animato. Pareva veramente una sala di società, dove tutti si conoscevano, si salutavano, si aggruppavano amichevolmente.

Le conversazioni si intralciavano; gli uomini discorrevano ad alta voce, si domandavano delle notizie: alcuni uscivano dalle sedie per andare a discorrere sotto qualche palco, o a salutare qualche signora. Il pettegolezzo faceva il giro della sala, s’insinuava nelle conversazioni serie, interrompeva un discorso di affari.

Si raccontava la storia della giovane debuttante, la si sminuzzava travisandola.

Nel palco del conte e banchiere Ceriani si diceva che il Pianosi aveva agito da uomo prudente lanciando quella ragazza nella carriera teatrale, che quello era un modo di sbarazzarsene, a suo tempo, cavallerescamente. Poi, per una naturale concatenazione delle idee, parlavano di sua