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nell’ingranaggio 303

andare in scena la penultima settimana di carnevale.

Cucivano tutte e due, una di faccia all’altra, presso a una tavola su cui erano distesi i diversi pezzi del costume, in raso celeste da due lire e mussolino bianco.

La vecchia tirava l’ago alacremente, col viso serio, soffocando i sospiri che di tratto in tratto le salivano inconsciamente dal cuore gonfio.

Gilda, con la testa arrovesciata, il lavoro abbandonato in grembo, le braccia abbandonate sul lavoro, guardava davanti a sè con gli occhi smarriti.

— Avrai capito male, disse scuotendosi improvvisamente e ripigliando il discorso interrotto: non può essere!

Caterina alzò gli occhi nel medesimo tempo che alzava il braccio per tirare un punto, e rimase un momento ferma in quella posizione, guardando sua nipote per di sopra agli occhiali. Ma l’espressione del suo viso, che era di risentimento, si cambiò affatto per quel breve esame e divenne triste, spaventata. Il braccio teso parve irrigidirsi mentre con l’altra mano, istintivamente, ella si toglieva gli occhiali.

— Non rispondi? — domandò Gilda: — perchè fai quella faccia?

La vecchia si ricompose subito e tornò a lavorare con le mani che le tremavano.

— Sicchè, tu credi proprio di avere inteso bene? — tornò a dire la giovane.

— Gesù mio! potrei anche avere inteso male, che vuoi ch’io ti dica!

— Ma che ti ha detto la Vimercati? — Parla dunque!...