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nell’ingranaggio 309


«Gilda mia,

«Non oso ricomparirti davanti. Sono tanto indegno di te, e ne sento tanta vergogna che neppure l’ebbrezza dell’amor tuo non basta più a rallegrarmi. Ti ricordi dell’ultimo giorno che passasti in casa mia l’estate scorso quando io entravo nella convalescenza? Certo ti ricorderai! Mi avevi detto delle cose che a me parevano sorprendenti in una fanciulla. Ho poi capito che era tutto amore. Tu mi volevi persuadere che le difficoltà, che io non potevo superare, un poco per la mia indole, più per i miei pregiudizi e le fatali abitudini (e tu lo sapevi), fossero in realtà insuperabili. E tale era l’amore in te, che t’ispirava ragionamenti sottili, osservazioni profonde, veramente superiori alla tua età. Io mi lasciai cullare da quella dolce musica, non del tutto consapevole, nè del tutto inconsapevole. Te lo dissi però che avrei commesso una viltà di più! Ti ricordi? Tu dicesti che non era vero: che non potevo fare altrimenti. Io mi sono lasciato persuadere che il tuo ragionamento fosse più giusto del mio. Era tanto dolce la persuasione!

Pensai pure che tu appartenevi a una razza popolana, più forte, più nuova, almeno; che una volta illuminati dalla istruzione, voi altri vedete le cose più dirittamente e sapete affrontare la vita con più coraggio, perchè avete meno pregiudizi, di quelli instillati in noi fin dalla nascita, meno vigliaccherie ereditarie. Forse mi sono anche detto qualche cosa di meno bello. Ma lasciamene dubitare.