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nell’ingranaggio 93


Nè basta: come una visione, in quella nebbiolina leggera, che le vivande calde e il fumo di sigaro avevano lasciato nella sala da pranzo e che pareva addensarsi nella profondità dello specchio, ella vedeva l’immagine dell’avvocato Anselmi, freddo, quasi sprezzante, e il dolce sguardo amoroso, che suo marito serbava a Gilda.

Così volgeva al tramonto la sua giovinezza, così andava a finire nella miseria quel tesoro immenso di forza e di venustà, che le era parso inesauribile! Quelli che l’avevano adorata, ch’ella aveva creduto di dominare per sempre, ora le sfuggivano, la tradivano, l’abbandonavano. Tutto le sfuggiva; tutto, vale a dire la giovinezza, la bellezza, l’amore. Ora, sì, poteva dirsi perduta, ben altrimenti che il giorno in cui la sua protettrice la aveva cacciata, o il giorno in cui gl’impicci finanziari l’avevano forzata a separarsi da Paolo!

Allora egli l’amava e le lagrime che versava lasciandola, erano sincere. Allora tutti l’amavano, tutti invocavano la sua presenza. Poteva credere che il mondo fosse prostrato ai suoi piedi. Se avesse continuato per quella via sarebbe ancora nel massimo splendore dei trionfi artistici e femminili: avrebbe l’indipendenza con una ricchezza tutta sua, l’amore sempre rinascente, e un piedestallo sfolgorante e adoratori instancabili alla sua matronale bellezza. Così invece era sulla soglia dell’età ingrata, presso a quel fatale momento psicologico, in cui pare che tutto ci abbandoni. Ella si sentiva nel grave pericolo di perdere le cose e le persone a cui teneva di più, per affetto o per ambizione: vita ricca e decorosa, amante e marito, e quel posto in società, conquistato con