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nell’ingranaggio 95


Vi andava soggetta: tutte le sue grandi crisi finivano così.

Gilda la guardava colpita da stupore e più commossa che non si sarebbe immaginata.

La posizione diveniva imbarazzante per lei.

Pensò che il meglio era di andarsene, e portar la bambina nelle sue camere.

Ma Lea non volle.

La povera piccina aveva gli occhi pieni di lagrime; all’invito di Gilda scoppiò in singhiozzi, e andò a nascondere il viso sulle ginocchia della sua mamma.

Questa si scosse tutta; alzò il capo, vide la bimba piangente, si chinò su lei, se la prese in collo, se la strinse al cuore e si diè a baciarla furiosamente, come se si fosse sovvenuta soltanto allora di quel tesoro d’amore che le rimaneva.

Quando si fu un po’ calmata cercò Gilda con gli occhi. La vide che aspettava nell’ombra, con le spalle voltate. La chiamò dolcemente, per dirle ch’era libera di ritirarsi, che lei teneva Lea con sè, e le stese la mano.

Ma Gilda non si mosse: la sua fibra era meno elastica, quantunque più giovine. Non serbava rancore; ma quel passaggio così repentino dalle minacce alle gentilezze, dalla collera agl’intenerimenti, le restava indecifrabile.

Si limitò ad un inchino, ed uscì.

La mattina seguente, all’ora della colazione, l’istitutrice entrò come di consueto nella sala da pranzo, testimone della scena, ch’ella non avrebbe dimenticato mai più, e invece di sedere al suo posto pregò i signori Pianosi di ascoltarla un momento. Poi subito, senza rispondere allo sguardo