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volta di una nuova scuola, dove altre alunne l’aspettavano, mutabili e obliose come quelle che lasciava.

Avendo dinanzi a sè alcune ore di libertà, ne approfittò per recarsi da una sua parente, presso la quale rimase a pranzo.

Quando ritornò, era già notte. La portinaia le rimise un biglietto scritto col lapis che una delle maestre le aveva mandato dalla stazione. Ernestina lo aprì lentamente; era della Margherita, la maestrina del primo corso, e conteneva una preghiera vivissima per alcuni pizzi dimenticati in fondo a un cassetto, in uno dei dormitorii: ne facesse un pacco postale e glielo mandasse alla Spezia. Poi, con indifferenza, come se la cosa le premesse meno, le diceva di mandarle anche una scatola di fiori fatti seccare nella bambagia, che aveva lasciati nel banco di scuola. Ernestina sorrise, si fece dare un lume, salì, si levò il velo, e cominciò a girare gli appartamenti per vedere se non ci lasciava anche lei qualche cosa.

Lentamente, fermandosi ad ogni istante, pensando ch’era per l’ultima volta, e facendosi suo malgrado sempre più triste, quantunque in fondo non gliene importasse tanto, ella andava su e giù per le sale, attraversava gli anditi, frugava i dormitori. Il lume con cui ella si rischiarava, faceva apparir più vaste le sale abbandonate, più cupi e misteriosi i fondi lontani, gettando sprazzi di luce viva su alcuni punti vicini.

Ella guardava intorno a sè come sorpresa di quel silenzio; posava il candeliere sur una mensola o un cassettone, si chinava a raccattare un nastro polveroso, un fiore gualcito, un foglio caduto da un vecchio libro di scuola, strappato.