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L’istitutrice, che si era finalmente assopita nella sua poltrona, dove stava rannicchiata, coi ginocchi alzati, i gomiti appoggiati sui ginocchi, e tutto l’alto del corpo abbandonato sopra le braccia in un accasciamento supremo, sentì il saluto frizzante dell’aurora e si svegliò con un brivido.

Si alzò a fatica: le pareva di avere tutte le ossa rotte. Guardò l’orologio. Erano le quattro e mezzo.

Il giardino, uscito dall’ombra della notte, pareva come velato da una nebbiolina sottile e diafana.

Ella finì di svegliarsi, e provando un gran bisogno di movimento, chiuse le sue valigie, poi cominciò a trascinarle, una a una, fuori della camera, lungo il corridoio e fin giù a piè della scala di servizio che metteva direttamente in porteria.

Qui tutto dormiva ancora. Il gattone nero, svegliato in sussulto, distese le membra intorpidite, allungando le zampette davanti e appuntandole sul pavimento, rientrando la testina e abbassando il collo, mentre le reni inarcate si spingevano indietro, si gonfiavano graziosamente, con una morbidezza voluttuosa, che mostrava tutto il dispiacere del bel micio, per quella interruzione del suo dolcissimo sonno.

Ernestina risalì e ridiscese parecchie volte, finchè tutte le sue valigie si trovarono riunite nell’atrio; intanto che il gatto la guardava con una cert’aria di stupore.

Questa ginnastica la rinvigorì. Il rossore della fatica cancellò dal suo viso le traccie del pianto e della veglia. Quando il portiere e sua moglie furono alzati, si congratularono con lei del suo buon aspetto. Aveva almeno dormito bene per l’ultima notte?

Suonava la prima messa alla chiesa vicina, quando il domestico arrivò insieme alla vettura.