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e più ruvido di un tronco d’olivo — accendeva tutti quei lumi ad olio, il cui puzzo di moccolaia mi dà ora, al solo pensarvi, un senso di mal di mare!...

La casa dei miei prozii era una delle migliori, e la meno lontana dalla chiesa, non più di due o tre chilometri.

Era un edifizio solido, senza pretese architettoniche e si stendeva tutta in larghezza, da levante a ponente, con una profondità di appena due stanze medie, per cui, realmente, aveva l’aspetto di un’ala di casa più che di una casa completa. Difatti il progetto antico era stato assai più grandioso; ma i denari erano mancati all’esecuzione. Forse questo contribuiva a darle quell’aria di vecchia casa decaduta; mentre, osservandola bene, si capiva che doveva essere una costruzione del principio del secolo.

Sopra il piano terreno, occupato quasi interamente da un grande vestibolo, sproporzionato, s’innalzavano due soli piani: il primo destinato all’abitazione della famiglia; il secondo fatto per uso di granaio, con l’aggiunta di due o tre camerette per la servitù.

Il piano destinato alla famiglia si componeva di otto o dieci camere, tutte infilate, di una sala, di uno studiolo, di un tinello e di una grande cucina con terrazza.

Tutto ciò avrebbe potuto essere allegro: invece, io avevo l’impressione che quei muri mi schiacciassero, e che da tutti i vani si sprigionasse un senso di noia, di pesantezza: un non so che di torbido che irritava i miei nervi. Allora io non cercavo donde provenisse quella tristezza, nè dove si accumulasse quella insopportabile noia. Ma pure cercando non avrei trovato.

Forse erano nei muri grossi, rozzamente dipinti; forse